Estratto dal capitolo 45 di Dizionario affettivo della lingua ebraica, di Bruno Osimo

La traduzione è un po’ dappertutto, a ben vedere. Non succede solo quando un testo va riformulato in un’altra lingua. Non ci sono quasi aspetti della nostra vita che ne siano privi. Dire ‘lingua’, poi, è un’astrazione. Le lingue non esistono in senso stretto. Esistono linguaculture, di cui le lingue sono la superficie verbale. E la cultura è quello che si dà per scontato. Ma nemmeno in una stessa persona c’è sempre chiarezza su cosa si dà per scontato e cosa si mette in discussione ogni volta che si parla. Ogni volta che ci sono due persone che devono dirsi o comunicarsi qualcosa, è necessario tradurre, perché ognuno vede le cose un po’ a modo suo. Non esiste nulla di simile a un ‘patrimonio di conoscenze condivise’, ma solo un precario, provvisorio, labile, malcerto, vago modo di vedere, in certi momenti a volte irripetibili, le cose in un modo tale che (data la nostra imperfetta, umana capacità di esprimerci) le nostre descrizioni a volte collimano. Al punto che siamo convinti di ‘essere perfettamente d’accordo con’ o di ‘pensarla assolutamente nello stesso modo di’.
Non si traduce mai la forma, non si traduce mai il contenuto. Anche queste sono entità astratte buone solo per le semplificazioni rozze. Il traduttore, dopo avere letto qualcosa, cerca di estrarne un senso. “Che senso ha quello che ho letto?” Questa domanda non se la fa in italiano inglese ebraico russo finlandese. Questa domanda se la fa in un linguaggio che è un programma applicativo che gira nel sistema operativo della mente. E che non è fatto di parole. Le parole ci girano dentro, ma sono dei pacchi trasportati, non fanno parte del discorso interno della mente. E per capire che senso hanno queste parole il traduttore fa un raffronto immediato con la banca dati di tutte le sue esperienze, in particolare con tutte le esperienze con le parole. Dove trova una corrispondenza completa nel passato, è a buon punto per formulare una congettura sul presente; quando la corrispondenza è parziale, ricostruisce le parti mancanti per interpolazione, per intuito, per analogia. Nella sua testa le serie paradigmatiche e le serie sintagmatiche sono gigantesche tabelle mentali di corrispondenze, e il suo pensiero vi sfreccia dentro a velocità supersonica con mano inguantata di velluto nero, e più veloce della luce prende sfoglia molla raccoglie compone scarta ripesca riformula chiosa si rimangia deleta ripete annulla. A un certo punto pensa di avere in qualche modo circoscritto il senso di quello che ha letto.
Il senso, che non è fatto di parole ma di pensieri.
Allora prova a pensare a quello che forse qualcuno avrebbe voluto dire se l’avesse detto in un altro modo, se fosse stato più attento a formulare con precisione il proprio pensiero, se fosse stato un altro, se si fosse rivolto a qualcun altro, se avesse avuto gusti diversi, un altro stile, se si fosse trovato in un’altra situazione, se lo scadente latticino usato per preparare la pizza di cui si era nutrito la sera prima fosse stato mozzarella fresca e non fosse risultato indigeribile.
Prova a pensarlo, il traduttore (cioè chiunque si ponga il problema di comunicare), e riprendendo in mano le redini dell’atto comunicativo, come se fosse suo, lo proietta sullo schermo della cultura di quello che si presuppone sia il proprio lettore, ossia lo proietta sui presunti pregiudizi di questo lettore, lo reimposta, lo riformula, lo riprogetta e ne esce un messaggio nuovo. Che vuole dire qualcos’altro. Che vuole dire qualcosa di più. Che vuole dire qualcosa di meno. Che si inserisce diversamente in un contesto diverso e produce reazioni diverse in lettori diversi. I quali, per i motivi più diversi, reagiscono in modi diversi, alcuni sostenendo che quel testo è stato tradotto in modo magistrale.
Altri pensano che sia stato tradotto non meglio precisatamente ‘male’, e negano l’esistenza del traduttore. Non lo nominano, invano.
Il messaggio nuovo è intriso di discorso altrui, ma questo è tautologico perché sfido chiunque a trovare un testo che non lo sia. L’ossimoro chiamato ‘traduttore’ deve compiere un’opera razionale di analisi, elaborazione e sintesi, e nella sintesi deve sforzarsi di apparire spontaneo, naturale, casual. Il traduttore è quello che nelle foto si mette in posa, non viene mai colto di sorpresa dall’obbiettivo, ma guai se si vede che il suo sorriso è posticcio, che sta abbracciando quelli che gli stanno intorno ma in realtà non prova trasporto per loro o, per contro, che sta impassibile accanto agli altri ma non trapela che ne è innamorato.
Riprendendo in mano le redini del discorso ‘come se fosse suo’, ma il discorso è suo: e la sua speranza è solo che sia (parzialmente) condivisibile. Il traduttore è un comunicatore per conto di terzi.
Il fatto che la traduzione si trovi in quasi qualsiasi comportamento quotidiano fa pensare che tutti debbano essere esperti di traduzione, e la sua conseguenza logica, ossia che essere esperti di traduzione non sia possibile, se per ‘esperto’ s’intende ‘specialista, persona che ha acquisito una conoscenza specifica di gran lunga superiore alla media’.
Per non parlare di equivoci di fondo più volgari, come il fatto che il traduttore sia una persona che sa bene le lingue, e che le lingue siano quelle che ci sono ‘scritte nei dizionari’, e che, quindi, il traduttore sia un bravo consultatore di dizionari, o – più spesso – uno che li sa a memoria.
I dizionari bilingui sono repertori di significati, ossia di cadaveri di senso. I dizionari sono obitori, e i lemmi celle mortuarie. Se i traduttori attingessero qui per il loro lavoro, produrrebbero opere putrefatte. (…)
I traduttori non sanno le lingue, sanno i discorsi. Non conoscono la grammatica, conoscono l’uso. Non sanno le prescrizioni, conoscono i registri. Non conoscono la letteratura, sanno il canone, e le tendenze non canoniche. Non conoscono i generi ‘letterari’, ma i tipi di testo. Non fanno traduzioni ‘letterarie’, fanno traduzioni testuali. Non sono letterali, perché sanno che in ogni lingua si usano lettere diverse in sequenze diverse e si domandano come si faccia a pensare a una cosa tanto idiota. Non hanno ispirazioni, ma studiano. Non sono aderenti, perché non sono un collante e hanno un loro stile di vita. Non sono fedeli, perché avrebbero troppi partner a cui esserlo contemporaneamente. Non sono spontanei, ma fingono di esserlo.
Quando il loro lettore giunge all’apice del godimento, anche loro fanno qualche sospirone, complimentandosi per la sua perizia. (…)
Il traduttore è esperto nel pensiero altrui e nei modi di esprimerlo. Il traduttore è esperto nel confine tra il proprio modo di vivere e di vedere il mondo (la propria ‘cultura’) e il modo di vivere e di vedere il mondo altrui (i sette miliardi di ‘culture altrui’ più sette miliardi al quadrato di combinazioni possibili). Il traduttore è esperto nella differenza, e nella difficoltà di comunicarla. Il traduttore è esperto nelle sfumature di senso. Il traduttore è esperto nell’arte di adattarsi, di adattare. Il traduttore è uno che ha avuto un’infanzia difficile, e che per sopravvivere emotivamente si è adattato, ha adattato, si è adattato ad adattarsi.

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